BIO

Stefano Carbonelli è un musicista di Roma, con base a Parigi .

Biografia Completa:
Nato a Roma nel 1991, Stefano Carbonelli ha iniziato a suonare la chitarra all'età di dieci anni.
Dopo aver studiato chitarra classica con il Maestro Fabio Giudice, nel 2005 si è iscritto al Saint Louis College of Music di Roma dove ha vinto una borsa di studio per frequentare il corso di Diploma di chitarra Jazz con i maestri Dario Lapenna, Umberto Fiorentino, Carlo Mezzanotte, Amedeo Tommasi, Claudio Colasazza, Cristiano Mastroianni, Pierpaolo Principato e si è diplomato con lode nel 2011.

Ha partecipato a molte Master Class dal 2007 (Berklee Clinics at Umbria Jazz 07, Roma Jazz's Cool 07-08-09-10-11, Tuscia in Jazz 11-14, Siena Jazz 12) tenute da numerosi musicisti di fama mondiale: Adam Rogers, John Taylor, Jeff Tain Watts, Kurt Rosenwinkel, Scott Colley, Phil Markowitz, Peter Bernstein, Larry Grenadier, Mark Turner, Jeff Ballard, Jonathan Kreisberg, Joe Locke, Clarence Penn, Chris Potter, Antonio Sanchez, David Kikoski, George Garzone, Rick Margitza, Lionel Loueke, Steve Cardenas, Jim Kelly, Kevin Hays, Donny McCaslin, Nir Felder, Rosario Giuliani, Maurizio Giammarco, Salvatore Bonafede, Roberto Gatto, Giovanni Tommaso.

Nel 2012 ha vinto il Premio Miglior Chitarrista al Jimmy Woode European Jazz Award.

Nell'ultimo anno del corso di Fisica Triennale all'Università La Sapienza di Roma si è trasferito a Londra come studente Erasmus. Lì ha conosciuto e suonato con Kevin Glasgow, Andrea Di Biase, Dave Hamblett, Francesco Bigoni ed altri musicisti della scena jazz inglese.

Tornato in Italia, dopo essersi laureato con lode in Fisica presentando una tesi intitolata "La fisica degli strumenti musicali a corda oltre l'equazione delle onde", è stato ammesso al Biennio di Specializzazione Jazz al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, dove ha studiato col maestro Fabio Zeppetella svolgendo parallelamente attività di Tirocinio insegnando Acustica Musicale, Teoria e Armonia.

Nel 2014 è stato selezionato come chitarrista per la Special Master Class di Enrico Rava nella Fondazione Nazionale Siena Jazz.

Nello stesso anno ha inciso il suo primo album intitolato "Ravens Like Desks" con i musicisti Daniele Tittarelli, Matteo Bortone e Riccardo Gambatesa, uscito per l'etichetta di Jazz moderno Auand Records.

Si è esibito in Zambia, Africa, per l'Ambasciata italiana durante la XIV edizione de "La Settimana della Lingua Italiana nel Mondo".

Nel 2015 si è diplomato con lode al Conservatorio Santa Cecilia discutendo una tesi originale sull'armonia moderna intitolata "Nessuno vide nulla, gli accordi proibiti".

Ha vinto il Premio Nazionale Siae "Libera il Jazz 2015" per giovani compositori, nato in occasione del decennale della Casa del Jazz di Roma per la lotta contro la mafia, con la composizione "La banda dei mezzi cadaveri".

Fa parte del Trio di Jacopo Ferrazza, col quale ha registrato i dischi "Rebirth" e "Theater" prodotti dalla CAM JAZZ.

Nel 2017 registra il secondo album da leader "Morphé" uscito per la CAM Jazz nel 2018.

Nel 2018 è selezionato per una residenza artistica nell'Istituto di Cultura Italiano ad Addis Abeba (Etiopia) dove si esibisce all'African Jazz Village di Mulatu Astatke.

Nel 2021 si trasferisce a Parigi.

Ha insegnato Chitarra Jazz presso il Conservatorio di Musica Luca Marenzio di Brescia nel 2022 e 2023. Dal 2023 è docente presso il Conservatorio di Colombes (Francia)

È co-leader della band rock/fusion "Il Trio Dei Benestanti", il cui album è uscito nel 2018, e del trio UNOZEROUNO con cui ha pubblicato l'album "In A Sentimental Moog" nel 2024.

Ha collaborato con Daniele Tittarelli, Kevin Glasgow, Francesco Bigoni, Andrea Di Biase, Dave Hamblett, Valerio Vantaggio, Jacopo Ferrazza, Francesco Ponticelli, Stefano Travaglini, Danilo Blaiotta, Achille Succi, Enrico Morello, Matteo Bortone, Enrico Zanisi.

INTERVIEWS

Stefano Carbonelli: la fisica, la matematica, la chitarra

Tra i nomi dei più interessanti giovani talenti del jazz italiano, quello del chitarrista romano Stefano Carbonelli è ormai stabilmente tra quelli più citati. Rivelatosi un paio di anni fa con un bel disco per la Auand Records, ha continuato a lavorare stabilmente con il proprio quartetto (completato dal sassofonista Daniele Tittarelli, dal contrabbassista Matteo Bortone e dal batterista Riccardo Gambatesa) e ha in queste settimane pubblicato un nuovo disco, questa volta per la Cam Records, dal titolo Morphé. Un lavoro dalla tessitura cangiante, in cui risalta una profonda attenzione al dettaglio, alle dinamiche tra gli strumenti, in un clima di inquieto camerismo che fa risaltare le peculiarità dei singoli e della tessitura corale. Attivo anche nel trio di Jacopo Ferrazza e nel sestetto di Francesco Ponticelli, entrambi bassisti, Carbonelli è artista di grande rigore e intelligenza, con cui è stato un piacere fare una chiacchierata per voi.

Come nasce il nuovo disco Morphé e come hai lavorato su questi materiali?
Ho lavorato dapprima sulla scrittura per un tempo più o meno lungo: tra composizione e modifiche - ricercando la migliore scelta delle singole note delle voci e delle armonizzazioni - il processo è durato vari mesi. Per alcune tracce ho utilizzato parti per tastiera precedentemente scritte di getto o in minor tempo, riarrangiandole per la formazione del quartetto che si era consolidato dopo l'uscita del primo disco Ravens Like Desks. Per altre sono partito da zero pensando proprio ai musicisti del quartetto, Daniele, Matteo e Riccardo. Ho continuato ad usare degli elementi musicali del primo album con la differenza che le strutture di Morphé - dal greco "forma" - mutano continuamente nel loro sviluppo, per cui in realtà sono più dense di informazioni. Un'altra differenza è che spesso non sentivo l'esigenza di comporre brani con un groove, cioé un accompagnamento costante propulsivo, per cui il ruolo della batteria è quasi solo timbrico; a contrasto le sezioni in cui la batteria esegue il groove sono intense e sfociano in dinamiche molto forti su tutto il set dello strumento. Quindi ci sono momenti neoclassici da camera, umile tentativo, alternati ad altri rock fino al metal - in un certo senso, per dare l'idea - con armonie sempre contemporanee.

Come è evoluto il quartetto e il tuo modo di pensare la musica rispetto al primo disco per Auand cui accennavi?
La strumentazione è più varia - aggiunta di basso elettrico, semiacustico e chitarra classica - mentre le sonorità sono meno jazzistiche e spesso vicine alla musica da camera. Ho dato priorità all'aspetto compositivo e diversamente dal primo disco gli assoli improvvisati non hanno un ruolo fondamentale nel disegno complessivo. Ci è voluto non poco tempo per riuscire ad eseguire con convinzione e scioltezza la musica di Morphé e le indicazioni date sull'interpretazione sono state numerose perché altrimenti non sarebbe uscito il senso dei pezzi. Il quartetto è molto coeso, siamo attenti al potenziale della musica scritta e cerchiamo di non portare l'attenzione dell'ascoltatore verso i singoli strumenti durante i soli, lo troveremmo fuori contesto.

Come funzionano le relazioni all'interno del quartetto? Qual è l'apporto di idee da parte dei tuoi compagni di avventura?
Ho sottoposto il materiale scritto al quartetto nelle prove da aprile 2016 fino alla registrazione di marzo 2017. I brani non sono stati cambiati sostanzialmente, ma ci sono state delle proposte interessanti su qualche sezione o sulla strumentazione... alcune legate alle necessità del gruppo. Così è nata per esempio la doppia versione del brano "Bongard" o la ripetizione del finale di "Glenn". Matteo ha inoltre scritto per il gruppo il brano "Car A Vudge Joe".

La tua tesi di laurea in fisica - lo ricorda anche Brian Morton nel booklet del disco - ha trattato "La fisica degli strumenti musicali a corda oltre l'equazione delle onde". Tenendo conto della nostra probabile pochezza nel comprendere questa materia, ti va di provare a spiegare in poche parole più o meno di cosa si tratta?
Alla fine del mio percorso universitario ho colto l'occasione per approfondire un po' di acustica musicale, materia vastissima, e tra i possibili temi che mi ha sottoposto il Prof. Paolo Camiz ho scelto lo studio degli strumenti a corda visti come oscillatori accoppiati. Descrivere matematicamente uno strumento musicale è molto difficile e occorre una modellizzazione semplificata del sistema; lo strumento è così suddiviso in tre oggetti: eccitatore (plettro, dita, archetto o martelletto che dà il via alla vibrazione), risuonatore (corda, che produce una nota a precise frequenze) e radiatore (tavola armonica e aria nelle buche, che trasmettono il suono nello spazio circostante rendendolo udibile). Lo studio analitico di questi oggetti separati e poi accoppiati consente di prevederne approssimativamente il movimento durante la vibrazione, che poi determina caratteristiche del suono emesso (per esempio equalizzazione, risonanze, timbro, intensità, durata).

I tuoi studi hanno influenzato il modo in cui approcci lo strumento?
La conoscenza dell'argomento specifico non ha direttamente influenzato il mio modo di suonare nella scelta delle note. Durante la dissertazione mi chiesero lo stesso e risposi molto direttamente che avrei imparato più sulla musica - sul linguaggio della musica - in un corso di matematica; a quel punto il relatore fece una bella controbattuta, rivolta a colui che fece la domanda: "piuttosto bisognerebbe chiedergli quanto abbia appreso di fisica con la musica"! A distanza di qualche anno posso dire che la maggiore consapevolezza dei meccanismi fisici mi ha indotto a prestar maggiore attenzione, anche con l'orecchio, a elementi acustici che prima trascuravo - per esempio le risonanze - e a cercare di controllarli.

Quali sono i chitarristi che ti interessano di più , sia storicamente che oggi?
Per quanto non sia un patito dello strumento, primo nel mio elenco in ordine sparso è Allan Holdsworth, del cui linguaggio sono rimasto sbalordito quando l'ho ascoltato la prima volta. Tuttora se lo ascolto mi dà la sensazione che sia un alieno per ciò che riesce a concepire e tirare fuori dalla chitarra. Poi Pat Metheny, che tra i chitarristi jazz mi ha appassionato più di tutti per i dischi Bright Size Live e Question And Answer. Ralph Towner per l'incontro tra tecnica e suono del mondo della chitarra classica con il jazz. Certamente Bill Frisell per la varietà, il controllo e la maturità sconvolgente sulla produzione del suono, dinamiche, effetti speciali, timbri. John Scofield per il suono titanico e la profondità di ogni nota. Ben Monder per l'uso di intervalli moderni nell'armonia, un musicista che per il suono oscuro non trova molto seguito, ma quanto di più personale si possa trovare ai giorni nostri. Lo reputo importante come musicista contemporaneo prima che chitarrista. Poi citerei Guthrie Govan, chitarrista rock-fusion-blues-funky con una tecnica spaziale, ineccepibile, un'espressività, un'apertura, un gusto e padronanza del linguaggio anche jazzistico neanche lontanamente paragonabile agli altri del settore; in più è ironico e divertente. Tra i jazzisti recenti trovo interessante Gilad Hekselman, per l'uso polifonico dello strumento (più melodie contemporaneamente come nella musica rinascimentale o barocca del liuto).

E cosa ascolta in queste settimane Stefano Carbonelli?
Pierre Boulez, la Sonata per pianoforte n.2. Mi sono imbattuto in questo ostico ascolto dopo averne letto i commenti in una raccolta di scritti di Glenn Gould, "L'ala del turbine intelligente". Sempre in questi giorni sto ascoltando Invenzioni e Sinfonie di Bach, la cui scrittura non smette di sorprendermi per il senso di "esattezza" della sintassi, davvero mai banale, e per le costruzioni a più livelli. La felicità derivante dall'ascolto di Bach secondo me è vicina a quella che si prova leggendo una bella teoria matematica: i matematici hanno bisogno della creatività, ma a differenza degli altri artisti per loro non tutte le idee sono valide perché alcune non portano da nessuna parte mentre altre risolvono il problema. Bach dà l'impressione di essere ispirato dalle "giuste" idee come i grandi matematici e con la "giusta creatività" porta a compimento la composizione non lasciando note opinabili.

I tuoi prossimi impegni?
Prossimamente sono impegnato con Jacopo Ferrazza e Valerio Vantaggio per dei concerti in Svizzera in cui suoneremo il disco Rebirth e un progetto misto svizzero-italiano con Josquin Rosset, poi c'è in programma una presentazione di Morphé a metà marzo a Marino, vicino Roma. Infine sarò e in studio con il nuovo sestetto di Francesco Ponticelli insieme a Enrico Zanisi, Enrico Morello, Alessandro Presti e Daniele Tittarelli.

Enrico Bettinello giornaledellamusica.it 17/2/2018



Stefano Carbonelli racconta il disco Morphé: 'un percorso personale di ricerca, passione e studio'

Pubblicato dall'etichetta Cam Jazz Morphé è il secondo album che porta la firma del chitarrista Stefano Carbonelli. Un progetto trasversale che unisce la musica da camera, con momenti carichi di groove che spesso si miscelano con il rock, altre volte danno vita a momenti di improvvisazione pure. Completano la formazione Daniele Tittarelli al sax, Riccardo Gambatesa alla batteria e Matteo Bortone al basso. Stefano Carbonelli ci ha raccontato questa avventura:
"Morphé - ci spiega - è un album di note scritte e qualche improvvisazione. La musica è stata composta o riadattata per la formazione del quartetto a mio nome, che in questo disco fa uso di sax contralto, chitarra elettrica e classica, basso elettrico e semiacustico, contrabbasso e batteria. Secondo disco per il gruppo, prima uscita insieme alla casa discografica CAM JAZZ che ci ha prodotto. Se si vuole incanalare l'opera in un genere bisogna notare che coesistono, a mio giudizio in modo riuscito, momenti contrappuntistici o da camera - in un certo senso in scia con Bach, Hindemith, Bartok... - con altri più groovosi e all'estremo molto rock, anche metal. Accomunano tutte le composizioni, compresa quella di Matteo, un'incessante metamorfosi delle stesse, che non raggiungono mai un delineamento compiuto. Questo è il manifesto nella prima traccia, la Title Track, mutevole e densa di idee in meno di due minuti. Da lì si parte per un percorso di brani i cui nomi omaggiano le personalità di Gould, Kafka, Gnap, "Car A V..." e Bongard - il cui consigliato libro "Pattern Recognition" di 100 indovinelli illustrati è particolarmente in tema con la ricerca e il senso della forma."

Un percorso interiore e personale e tanto lavoro con la band. Stefano Carbonelli ci spiega anche il percorso che ha portato alla nascita del disco:
"C'è alla base un percorso personale di ricerca, passione, studio analitico della musica. D'altra parte senza l'impegno dei miei colleghi il disco sarebbe rimasto sulla carta, anzi alcuni brani non sarebbero stati proprio composti. Il gruppo esiste stabile dal 2014, anno in cui abbiamo registrato il primo album 'Ravens like Desks'. Da allora l'affiatamento è stato crescente e ho subito avuto come obiettivo una seconda uscita. Per il repertorio ho unito i due brani vecchi inediti 'Morphé' e 'Kafka'; al recente 'Stalattiti', terminato di scrivere per l'occasione i due brani 'Arrgh' e 'Gnap' e composto dal principio 'Glenn'. Il lavoro di scrittura è quello che ha caratterizzato di più il lavoro finito: c'é un'alta percentuale di musica scritta per un disco di jazz e le improvvisazioni sono spesso intese come parti non fondamentali del disegno complessivo. Durante le numerose prove iniziate nella primavera 2016 si è aggiunto il brano e 'Bongard #101' - presente in due tracce separate chiamate L e R - e 'Car A Vudge Joe' di Matteo. Di lì a quasi un anno abbiamo avuto la fortuna di essere portati in studio dalla CAM JAZZ, nel marzo 2017 a Udine, dove abbiamo finalmente inciso Morphé."

Cosa rappresenta invece Morphé per Stefano Carbonelli? Rispondendo a questa domanda il chitarrista ci mostra anche la sua visione della musica...
"Non so per gli altri ma penso di poter rispondere che la musica di Morphé non è descrittiva e non ha l'intenzione neppure nascosta di rappresentare un'esperienza, un evento o un oggetto. Il mio parere è che ci si possa disinteressare di usare la musica come metalinguaggio, senza che questa manchi dell'elemento per il quale viene percepita come una cosa bella e funzionante. Detto altrimenti se la musica è piacevole lo è di per sé e non perché rappresenta una cosa: indirettamente l'ascolto delle note richiama delle sensazioni - soggettive - e questo è sufficiente. A mio parere, ipotizzo universalmente, l'ispirazione nella composizione o nell'improvvisazione nasce da meccanismi inconsci - che permettono la 'spontaneità' per cui reputo una forzatura cercare di descrivere altro con la musica: non che mi opponga all'uso ma potrebbe anche darsi che quello che si voleva descrivere, se non reso esplicito, non venga minimamente colto e tuttavia cio' non implicherebbe che la musica appaia deficiente. Il punto è che c'é una differenza abissale con un testo scritto o una raffigurazione, infatti la musica senza parole funziona lo stesso ed appassiona una percentuale di persone - non è rilevante quante persone se ne accorgano bensì il loro grado di appassionamento. Lascio al pubblico nove tracce a cui abbandonarsi e in cui scovare forme da analizzare in base ai criteri che preferisce ma sapendo che secondo l'autore la musica rappresenta se stessa. "

Carlo Cammarella jazzagenda.it 13/2/2018



Ravens Like Desks - Intervista a Stefano Carbonelli

Stefano Carbonelli è un giovane chitarrista romano, classe 1991, che ha fatto il suo esordio discografico con il CD dal titolo "Ravens Like Desks" [Auand, 2016] e che è già sotto contratto con la CAM Jazz per un secondo CD che sarà pubblicato il 2 febbraio 2018. Lo incontriamo per saperne di più sulla sua idea di musica e sul suo primo disco da leader.

Innanzitutto presentati ai nostri lettori. Raccontaci come e quando hai deciso di dedicare la tua vita alla musica, quali sono stati i tuoi primissimi ascolti e i tuoi primi riferimenti espressivi.
Tutto è partito dalla mia famiglia: mia madre è diplomata in pianoforte, mio padre suonava chitarra e sassofono e gli zii erano maestri di chitarra classica, mandolino e pianoforte. Dedicarsi alla musica è stato naturale: a dieci anni ho scelto la chitarra senza una riflessione precisa e poi ho iniziato a scrivere canzoni. M'interessava l'aspetto creativo. Dopo un paio di anni ho scoperto l'esistenza di una musica 'strana' che risultava 'bella' dopo ripetuti ascolti: sono passato così da Pino Daniele ad Antonio Carlos Jobim, e in seguito a Chet Baker, Dexter Gordon, Herbie Hancock e a tutti i grandi nomi del jazz americano: l'ascolto era una sfida, un processo di crescita che regalava 'emozioni musicali' mai provate altrimenti. Continuavo a non essere interessato al chitarrismo ma alla musica in se stessa e oggi cerco di suonare pezzi che finora non si credeva fosse possibile eseguire con questo strumento, di riprodurre fedelmente brani contrappuntistici come le invenzioni a due voci di Bach o di riadattare brani per pianoforte di Ravel o Debussy.

Arriviamo alla tua idea di musica. Cosa vuoi proporre al pubblico?
Voglio proporre qualcosa che abbia identità e dare un contributo all'evoluzione della musica. Cerco un'espressione che faccia pensare le persone: che le sorprenda e che riesca a cambiare il loro modo di percepire l'esistenza.

Cosa significa incidere un CD, oggi? Ha ancora senso? Che valore ha realizzare una nuova produzione discografica?
Innanzitutto significa diffondere e lasciare in eredità un'opera; per quanto oggi il CD sia meno richiesto dal mercato, è comunque il mezzo che si usa per rendere ufficiale un progetto musicale e per investire su una figura artistica.

Veniamo al tuo album "Ravens Like Desks". Quando nasce l'idea di entrare in studio?
Dopo aver trovato i musicisti giusti, ovvero Riccardo [Gambatesa, ndr], Matteo [Bortone, ndr] e Daniele [Tittarelli, ndr], ho pensato che fossimo pronti per dare alla luce "Ravens Like Desks" e così siamo andati in studio nella fine del 2014.

E come nasce il gruppo e la selezione del repertorio, interamente scritto da te?
Il repertorio è il frutto di anni di ricerca di forme originali, sia ritmiche che armoniche. E' stato bello ritrovare poi elementi analoghi nella musica classica moderna e contemporanea (Stravinskij, Ravel, Ligeti), nei ritmi bulgari e nelle composizioni di alcuni jazzisti recenti. Ho avuto la conferma che quelle intuizioni potessero generare un'estetica e un linguaggio coerente. Ho avuto inoltre la fortuna di aver trovato musicisti che si sono messi totalmente a servizio del progetto. Non far prevalere il proprio modo di suonare significa capire il potenziale delle composizioni e dell'interazione con il gruppo, è una capacità di cui ha bisogno la musica. Daniele per esempio ha un'intelligenza eccezionale, oltre a un suono di sax alto meraviglioso come pochi: posso affidargli non solo i temi, ma anche le improvvisazioni in modo che esse sembrino far parte della stessa composizione! Ad esempio nella quinta traccia Stop Kickin' That Dodo, inizia il solo con delle variazioni spostate sul tempo (in real time!) dell'ultima frase tematica. Il tutto non funzionerebbe senza l'interazione energica e sensibile con Matteo e Riccardo, che rende unico il suono della formazione.

Quanto è importante, per te, trovare un equilibro tra scrittura e improvvisazione? Come si muove, a riguardo, il tuo gruppo?
Ho sperimentato vari gradi di libertà espressiva: dal free jazz all'assoluta lettura della partitura, fino alle ultime composizioni, alle quali ho voluto dare un taglio neoclassico, per cui in ampie sezioni tutte le note sono scritte, persino quelle della batteria. Credo che il gruppo si muova bene a prescindere da quanta libertà gli venga concessa.

Veniamo al suono della band: emerge un timbro assolutamente personale, diciamo, banalizzando, d'oltreoceano e profondamente up-to-date. Quanto hai cercato, e voluto, questa tua/vostra identità sonora? E quanto è importante, per un gruppo, esprimerla così chiaramente?
Moltissimo per me; nella scelta dei musicisti ho dato un'alta priorità ai timbri di partenza, mi piace un contrabbasso di cui si percepiscano tutte le note nettamente, con il rango di 'voce' e non solo di rafforzo ritmico, un sax profondo, cassa e piatti con attacco definito, riverberi non troppo evidenti. Ho seguito per intero il mix e il master con mio fratello fonico Daniele perché volevo che uscisse questa identità sonora.

Avevi dei modelli di riferimento?
Per quanto riguarda il trio di chitarra mi piacevano le formazioni di Metheny con Pastorius+Moses e Holland+Haynes, all'epoca ascoltavo molto il quintetto di Dave Holland con Chris Potter, Billy Kilson... Dimensioni acustiche come più o meno quelle del disco. Per la resa delle riprese audio è stato fondamentale il lavoro di mix di mio fratello Daniele, da cui ho imparato cose importantissime per l'equilibrio in una band. La fonia è fondamentale nel delineamento del suono del progetto, al pari dei musicisti.

A proposito di timbro: ci racconti il tuo assetto strumentale, ovvero la scelta della chitarra e dell'effettistica?
Suono una Stratocaster American Standard a cui ho aggiunto tre switch per ottenere ogni percorso possibile tra i pick-up: sedici timbri diversi invece di cinque, da 'paperino' al super-humbucker a tre magneti. La chitarra è settata morbida e questo rende fattibili passaggi estremi a due voci in tutta l'estensione. Degli effetti prediligo il volume, un simulatore del pedale tonale del piano, delay e riverbero, overdrive e un indispensabile equalizzatore a dieci bande. L'ultimo effetto che ho provato è un rack di moduli analogici anni Settanta per il reattore Frascati Tokamak dell'ENEA (dove ho tenuto una conferenza su fisica e musica): grazie alla radice quadrata del segnale genera una pesante distorsione metal oppure fa da tremolo grazie alla moltiplicazione di due input (chitarra x onda quadra). In studio ho impostato personalmente le fasi stereo della chitarra per ottenere un suono esteso nello spazio. Mi hanno detto che in 'Fuori da Casa Mia!' sembra esserci un Rhodes! Ho aggiunto anche un lieve ring modulator nella prima traccia.

Il quartetto, nonostante il suo solidissimo amalgama, espone un affascinante contrasto tra due livelli espressivi contrastanti: quello rappresentato dalla chitarra e dal contralto, che espone i temi [spesso all'unisono] e che offre l'intelaiatura armonica, e quello della ritmica, batteria e contrabbasso, che ne sostengono il drive. Come e quanto avete lavorato assieme per arrivare a una tale maturità ? Cosa hai chiesto, se lo hai fatto, ai tuoi colleghi? Quale era il tuo riferimento espressivo, se ce ne fosse uno?
Abbiamo dovuto trovare il giusto equilibrio nell'accompagnamento tra contrappunto ritmico e sostegno in secondo piano. Per arrivare a un risultato efficiente è servito il confronto tra tutti e quattro, si chiedeva a ognuno di controllare le parti degli altri per non perdere di vista il quadro d'insieme, per essere appagati dalle note della band e non dalle proprie; come avviene nel trio di Brad Mehldau, nel quintetto di Miles Davis e Wayne Shorter. Un gruppo musicale che improvvisa è un team in cui i ruoli sono divisi ma tutti devono essere al corrente di quello che succede per agire al meglio, sviluppando così una meravigliosa capacità che include percezione, misura, analisi, creatività , maturità , decisione, direi qualità hardware e software, in tempo reale.

"Ravens Like Desks" è anche un manifesto del tuo modo di intendere la musica perché tutte le dieci composizioni portano la tua firma. Come lo descriveresti questo tuo vocabolario?
è un vocabolario di strutture: insiemi di note fino alle multi-tensioni ai confini dell'armonia funzionale. E' anche un vocabolario di metriche temporali alternative. Perché si suonano tempi binari così spesso? Altre culture ci dimostrano che sia fattibile per tutti concepire durate suddivise in numeri primi più alti (cinque, sette...). "Ravens Like Desks" dall'alto non è molto originale: di solito si ha tema-solo-tema, ma all'interno di questa forma standard jazz si manifestano questi mattoni singolari.

Il quartetto si muove con grande energia ma al tempo stesso controllo; la tua musica espone una lunga sequenza di obbligati [e mi viene a mente la scrittura di Kurt Rosenwinkel] ma annuncia grande libertà di movimento, non trovi?
Abbiamo studiato e provato molto per metabolizzare i groove dei brani, per poterci liberare dagli obbligati scritti. Niente di diverso qualitativamente dal modo di variare un quattro quarti, solo che partivamo da suddivisioni più articolate, vedi Tempo Nuvoloso: un cinque quarti e mezzo.

Ascoltando il quartetto dal vivo, penso alla performance al "Cantiere" nella primavera del 2015: misurate con grande maturità le parti in assolo, dosandole con parsimonia come se fosse primario il desiderio narrativo della composizione. Confermi?
Sì , questo è il tipo di concezione a cui appartiene il disco. Da allora stiamo migrando verso la fusione tra assoli e parti scritte: un intervento improvvisato può avere funzioni differenti e non necessariamente costituire un capitolo concludente, specie se è all'interno di un racconto più grande. In tal caso spicca meno il singolo improvvisatore rispetto al compositore.

Quale brano senti più emotivamente vicino nel momento in cui vi esibite dal vivo?
Febbre a 17, ho un debole per i tempi composti in quintine. Sono così scorrevoli, più fluidi delle quartine, non fitti come le sestine. Su questa base galleggiante si sviluppa forse la struttura più varia dell'album, con una melodia carezzevole che si trasforma in una seconda parte ai limiti dell'hip-hop. L'ho composta un diciassette febbraio, durante il mio soggiorno londinese.

Nonostante sia un esordio discografico, cosa ha aggiunto questo cd alla tua carriera? Cosa è cambiato nel corso della tua vita artistica? E' stato l'inizio, il primo punto indelebile di una ricerca costante. Da allora il gruppo è in continua crescita, come si sentirà nel prossimo album "Morphé ", edito dalla CAM Jazz, in uscita il 2 febbraio 2018, di cui spero avremo presto modo di parlare.

Ad oggi, ci racconti la più grande soddisfazione vissuta grazie a questo tuo CD?
Sentire realizzata la mia scrittura, divertirmi a suonare con altri musicisti, come se fossimo tutti guidati da un'unica mente.

Luciano Vanni jazzit.it 20/12/2017